Trasferimento per cambio struttura

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Il Trasferimento  per cambio struttura  del lavoratore consiste in uno spostamento definitivo del dipendente senza limiti di durata da una sede di lavoro ad un’altra.

esso è disciplinato dall’art. 2103 c.c. secondo cui il trasferimento può essere attuato solo in presenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive”. ciò significa che un lavoratore può essere trasferito solo a condizione che l’azienda possa dimostrare, ad esempio, che la presenza del dipendente nella sede di provenienza non è più utile o che è necessaria la sua particolare professionalità nella sede di destinazione e che, dunque, sono effettive le ragioni poste alla base della decisione aziendale  chiaramente resta ferma l’insindacabilità della scelta del datore di lavoro tra diverse soluzioni organizzative adottabili.  dunque, come più volte ribadito dalla giurisprudenza, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l’indicazione dei motivi né il datore di lavoro abbia l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento

l’azienda ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato  fatta questa necessaria premessa, vediamo ora nel dettaglio alcune problematiche tipiche del trasferimento di un dipendente. il dipendente può rifiutarsi di adempiere se ritiene il trasferimento illegittimo? non di rado accade che il datore di lavoro disponga un trasferimento che il dipendente reputa illegittimo e al quale sceglie di non adempiere rifiutandosi di eseguire la prestazione nella nuova sede di lavoro.

In tali casi è legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente? è chiaro che se il trasferimento del dipendente è legittimo, sarà legittimo anche il licenziamento.

se, invece, effettivamente il trasferimento risulta illegittimo lo scenario cambia. come spiega la giurisprudenza, il giudice, ove venga proposta dal dipendente l’eccezione di inadempimento – che consiste nel rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondato sulla allegazione dell’inadempimento, anche parziale, del datore – deve procedere ad “una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, al fine di stabilire quale sia più grave”  in altre parole, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in quanto ai contratti a prestazioni corrispettive si applica l’art. 1460, comma 2, c.c.

secondo cui la parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede dunque, tutto dipende dall’esito del confronto tra i due inadempimenti: se emerge una sproporzione dell’inadempimento del dipendente rispetto a quello del datore (nel senso che, ad esempio, il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione incide eccessivamente sulla organizzazione datoriale e sulla realizzazione degli interessi aziendali), il rifiuto del dipendente di eseguire il trasferimento sarà illegittimo.

se, viceversa, l’inadempimento datoriale va ad incidere significativamente su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, sarà allora legittimo l’inadempimento del dipendente. alla luce di tali principi è stato, pertanto, ritenuto illegittimo il licenziamento intimato per assenza ingiustificata presso la nuova sede in considerazione del fatto che il dipendente aveva comunque offerto la propria prestazione presso l’ufficio originario e aveva addotto esigenze familiari di assistenza dei genitori inabili conviventi, assistenza che non avrebbe potuto prestare a causa della distanza del luogo di nuova destinazione